Quando era Sabato

26.03.2016 22:35

Esistono alcuni luoghi comuni che non puoi demolire in nessun modo, un po’ come la storia di Einstein, gli atomi e i pregiudizi. Ad esempio, se gratti via l’etichetta dalla bottiglia di una birra c’è evidentemente qualcosa che non va, e non puoi negarlo. A quel tempo ne bevevo solo di doppio malto. Una birra semplice, all’epoca, per me non sarebbe neanche stata birra. E’ un po’ come se a un fumatore incallito dovessi offrire una di quelle sigarette ultra leggere la cui utilità è ancora ignota ai più. Frutta più mal di testa, che effettivi benefici. Ammesso e non concesso che mi passiate il termine “beneficio” in relazione agli effetti dell’aspirare i prodotti di una combustione.
Quando era sabato però era diverso. <
Che senso ha bere una birra così pesante>, chiedevo all’epoca ai miei interlocutori. Se vuoi sentir grattar la gola, puoi sempre ripiegare su un Whiskey, o  su un amaro. Ma quando era sabato, troppe cose erano diverse. A quei tempi credo che non andassi neanche grattando le etichette dalle bottiglie di birra.

A proposito, anche oggi è sabato. Sia chiaro, è un sabato, non il sabato. Insomma, non uno di quelli di quando era sabato. Un sabato qualsiasi, inteso come sesto giorno della settimana, e non come concetto. Lo so, non ci starete capendo nulla, ma questa è una storia lunga, che approfondiremo cammin facendo.
Quel sabato, tornando a noi, ero seduto in un locale scadente, molto scadente. Precisamente sedevo affacciato dalla ringhiera di un soppalco. Che poi pensandoci non c’era in altezza lo spazio necessario per costruire quel soppalco. Senz’altro si trattava di una qualche misura abusiva per mettere a disposizione della clientela qualche tavolo in più.
Tenevo la bottiglia tra due mani, la doppio malto di cui su, ed a furia di rigirarmela tra le stesse era ormai quasi bollente, oltre che con l’etichetta strappata. Che poi ci avete fatto mai caso che quando ad una birra gratti l’etichetta, pare che automaticamente diventi calda e anche sfiatata come fosse un’ovvia conseguenza? Quando era sabato non mi facevo tutte queste domande però, o almeno, non di così stupide.
Il mio sguardo andava su e giù come la sbarra di un passaggio a livello, quel sabato. Quando era sabato però, per un passaggio a livello ci passavo ogni sabato, ma quello non aveva le sbarre. Dannazione, ho perso ancora il filo.
Dicevo del mio sguardo, che passando per la bottiglia oscillava verticalmente tra il senso di soffocamento che mi dava quel soffitto così vicino e lo “spettacolo”, se così vogliam chiamarlo, che andava consumandosi al piano di sotto. Quando era sabato non c’era soffocamento tra le mie sensazioni, e soprattutto non c’era quella angustia nella mia concezione di uno spazio. Tutto era estremamente ampio, ed espanso. Infinito ed indeterminato, seppur delimitato e contenuto entro il tettuccio di un’utilitaria. Al piano di sotto, dicevo, suonava una cover band di Vasco Rossi. A me non è mai piaciuto Vasco Rossi, se non per un paio di tracce. Figurarsi quale interesse avrei mai potuto nutrire nei confronti di un gruppetto di imitatori, validi, ma pur sempre imitatori. Ho sempre preferito Ligabue ad essere onesto, anche se poi nel corso dei mesi in cui non è più stato sabato un amico mi ha spiegato che non esiste di fatti una vera e propria guerra di fazioni tra chi ascolta l’uno e chi ascolta l’altro, come invece suggerirebbe l’immaginario comune.
Quando era sabato ascoltavo spesso Ligabue, di notte, in compagnia, in quell’utilitaria. Lo ascoltavo a dire il vero anche e soprattutto molto prima che fosse sabato, quando non c’era ancora un’utilitaria, bensì un furgone, ma questa è ancora un’altra storia. Alla mia compagnia delle notti in utilitaria non faceva impazzire Ligabue. Eccolo, l’esempio di chi era più per Vasco e temeva potesse essere una bestemmia apprezzarne il rivale, ma poi la convinsi a suon di dediche. O almeno, era ciò di cui ero certo fino a quando è stato sabato e questa fa parte delle mille e cinquecento certezze che ho dovuto sottoporre al vaglio della confutabilità da quando poi sabato non è più stato.
E pensare che in adolescenza odiavo Ligabue. Fu a causa di una ragazza, la mia prima, sotto diversi punti di vista. Un giorno scoprì che tutta la relazione con il suo ex fidanzato aveva il Liga come colonna sonora. Era il loro interesse primario e soprattutto era il loro interesse in comune. Vedevo in quell’uomo con la chitarra una sorta di demone: una sua melodia, uno squarcio nella mia anima. Non ho iniziato ad avere sciocche fissazioni e stupidi colpi di testa solo da quando non è più stato sabato. A pensarci bene già prima ne avevo di ancor più folli e come immagino capiti un po’ a tutti, oggi mi dico <
>, se così veniali erano all’epoca le mie preoccupazioni maggiori.
Oggi ho un approccio diverso nei confronti dei problemi e delle preoccupazioni: un approccio analitico, esplorativo, oserei dire investigativo. Quando c’è un problema che mi attanaglia provo ad auto-psicanalizzarmi, e se non riesco nell’immediato a trovarne una soluzione, quanto meno cerco di individuarne ed interpretarne cause ed effetti. E’ così che credo debba fare un giornalista.
A proposito, io sono un giornalista, o almeno ci provo. Direi piuttosto che sono l’esatta sintesi tra ciò che credevo significasse essere un giornalista quando sognavo di divenirlo e ciò che oggi noto significhi riuscire ad esserlo davvero. Però ci provo. Provo a fare del mio meglio in questo lavoro, se poi lavoro vogliamo chiamarlo. Pensandoci, la mia dedizione nei riguardi di questa professione è l’unica cosa che è rimasta immutata da quando non è più stato sabato, rispetto a quando era sabato e a prima di quando fosse sabato.
Ho più di un giornalista preferito. Non puoi chiedere ad un cantante di fare un solo nome tra i colleghi che sia per lui più grande di tutti gli altri. Se proprio però doveste puntarmi un coltello alla gola, direi che il mio numero uno è l’immenso Federico Buffa. Ecco, era qui che volevo arrivare con questa divagazione. <
>, come Buffa è chiamato dai suoi adepti (ed io faccio senz’altro parte della categoria), nel promo dei suoi fantastici racconti sui mondiali trasmessi dalla pay-tv satellitare in occasione del 2014 brasiliano, sosteneva che i mondiali di calcio siano un po’ gli orologi, e i calendari, della nostra esistenza. Ne scandiscono i tempi, suddividendola e riorganizzandola in blocchi da quattro anni cadauno. Riflessione ineccepibile, che credo possa essere condivisa anche dall’ultimo tra i non appassionati di sport.
C’è un’altra cosa però che nella mia vita ha avuto da sempre un po’ la medesima funzione, e questa cosa, sono senz’altro le donne.

A proposito di donne, qualche giorno fa ho preso una stanza al centro di Roma con un’amica di vecchia data. Non ero mai più stato in albergo con una donna da quando non è più stato sabato e adesso, a posteriori, mi è più chiaro anche il perché. Ho pensato ed organizzato tutto con uno spirito molto simile a quello con cui si stappa una bottiglia il 31 dicembre al centro di un cerchio di amici, tentando quasi di colpire idealmente con il tappo qualcuno che nel cerchio non c’è. La cultura de “alla faccia di”, per intenderci. La differenza sostanziale è che un brindisi, così come un’imprecazione, è il gesto di un istante, che non richiede una presenza a se stessi, e alla situazione, in maniera duratura o quantomeno consecutiva. Ho prenotato quella stanza con l’intento di dimostrarmi di poter riuscire a farlo, a farla semplice, a fare come la fanno tutti gli altri. Appena valicate le porte d’ingresso dell’hotel però mi sono guardato attorno, osservando l’affascinante ed imponente struttura della hall in lungo ed in largo. Stavo per compiacermi della scelta. Di quelle piccole soddisfazioni che rendono per un attimo grandiosa la vita di chi un albergo a cinque stelle lo frequenta una volta l’anno, e non una al giorno, e che di vita grandiosa solitamente non ne fa. Il punto è che dopo aver squadrato tutto l’ambiente circostante, lo sguardo cade negli occhi della persona che è li con te in quel momento, ed eccola, la delusione. Ancor peggio è l’attimo in cui aperta la serratura della camera, la numero 440, mi appresto ad inserire la scheda nell’apposita fessura per far si che si accendano le luci. Non c’è fremito, non c’è palpitazione, non c’è curiosità. Ma davvero esiste gente che riesce a fare tutto ciò con chiunque altra persona che non sia esattamente colei che indossa lo sguardo che avresti voluto incrociare dopo aver ammirato mura, archi, quadri, tavoli, letti, sedie e tappeti? Temo di essere stato raramente così a disagio nella mia vita. Non c’era intesa negli occhi di quella donna, così come non c’era ne fuoco ne meraviglia nei miei. Ma questo, da quando non è più sabato, non è esattamente una novità.

La serata non è stata una gran cosa, ed ovviamente non è stata colpa sua.

 
(To be continued...) 
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